di Giulia Belardelli. Originariamente postato il 17/03/2020 su Huffpost: https://www.huffingtonpost.it/entry/coronavirus-fine-vita-in-isolamento-e-nessun-funerale_it_5e6b2cb6c5b6dda30fc68296
Intervista al monaco e tanatologo Guidalberto Bormolini: “Stiamo rinunciando a due momenti che sono costitutivi della civiltà umana: l’accompagnamento alla morte e il rito funebre. Ma si resta umani solo riscoprendo il bene comune”
In questi giorni sempre più spesso negli ospedali si muore soli, con o senza coronavirus, a causa delle stringenti regole giustamente imposte per contenere la diffusione del virus. E per legge, almeno fino al 3 aprile, si viene sepolti quasi da soli: i funerali sono vietati, è concessa solo una breve benedizione o un saluto laico, poche persone direttamente al cimitero. Se ne sono andati così gli oltre mille morti affetti da Covid-19, e con loro gli “altri”: persone il cui fine vita, per età o accidente, ha incrociato la Grande Storia della pandemia. D’un tratto la morte si è impossessata dei telegiornali, ha invaso i social network. L’attesa per il bollettino delle 18 della Protezione civile – quello sperare con tutte le forze che il numero s’abbassi – è diventato il nostro rito collettivo, un contatto comune con la morte.
È un contatto che in questo tempo solitario e sospeso sta probabilmente scavando in molti di noi. Ne abbiamo parlato con Guidalberto Bormolini: monaco, antropologo, tanatologo, docente al Master End of Life dell’Università di Padova, fondatore della prima scuola in Europa per l’assistenza spirituale non confessionale al fine vita nella malattia grave, a Prato. Qui – ci racconta – si sono formati alcuni medici e infermieri che in queste ore sono in prima fila nella lotta al virus. In un clima, condizionato dal virus, che ha colpito direttamente anche la sua famiglia con un lutto de-socializzato.
“Mio zio è morto a Brescia e per ore non veniva nessuno ad accertare la morte, nemmeno il medico legale. Ho dovuto avvertire io mio padre che suo fratello era morto e la prima cosa che mi ha chiesto è stata ‘e col funerale come facciamo?’ Questo perché la socializzazione del lutto è uno strumento fondamentale che in questo momento ci viene meno”.
Presso la vostra scuola si sono formate centinaia di medici e infermieri che si occupano della relazione di cura, in particolar modo nel fine vita. Molti di questi sono impegnati in prima fila nelle zone più colpite dal coronavirus. Li sta sentendo in queste ore?
“Passiamo giornate intere a confortare persone che ci chiamano dal Lodigiano, da Brescia, da Milano, dal Cremasco… Sono medici e infermieri che si trovano di fronte a quesiti morali e spirituali drammatici. Sono le storie di cui abbiamo letto in questi giorni: criteri da applicare in terapia intensiva, scelte da prendere. Sono situazioni drammatiche vissute in condizioni estenuanti. Purtroppo abbiamo pochi strumenti di conforto, se non quelli virtuali, che sono un salvagente ma non possono essere paragonati alla presenza, all’esserci”.
Qual è il costo emotivo e morale di questa pandemia?
“Il virus ci sta costringendo a rinunciare a due momenti che sono costitutivi della civiltà umana: l’accompagnamento alla morte e il rito funebre. La pandemia non ci nega solo il funerale, ma anche il momento prima della morte, i saluti, che sono molto importanti. L’aspetto terribile è che le persone muoiono in isolamento: non si può accompagnare il proprio caro, negli ospedali non possono entrare altre persone. Se anche la patologia non è il coronavirus, c’è una fortissima limitazione negli ingressi agli ospedali. Quindi si muore da soli e si è sepolti quasi da soli. È il contrario di ciò che è sano antropologicamente”.
Cosa è “antropologicamente sano”? Si è mai verificata nella storia moderna una circostanza simile, il divieto di salutare collettivamente i propri cari?
“Questa pandemia ci priva di un aspetto antropologicamente costitutivo della nostra civiltà, che è il culto dei morti. La civiltà inizia con la sepoltura dei cadaveri, che è il segno della fiducia in una vita ultraterrena. Non per nulla i cadaveri venivano sepolti in posizione fetale o colorati di ocra rossa. Le prime sepolture risalgono a 100 mila anni avanti Cristo. Siamo privati di qualcosa che, secondo gli storici e gli antropologi, ci rende umani. L’umano nasce con la cultura dei morti. Qui abbiamo di fronte una circostanza che toglie l’umano ad una società già disumana sotto molti aspetti, come lo sfruttamento del pianeta e degli esseri umani, la non-accoglienza, l’individualismo, il predominio del profitto sul bene comune…”.
Nelle società occidentali il fine vita è spesso considerato un tabù. Può un’epidemia globale stravolgere il nostro rapporto con la morte?
“Nell’Occidente contemporaneo l’occultamento del pensiero sulla morte, l’evitamento della parola morte è generalizzato. Siamo impreparati come Paese e come cultura. Per questo è più facile che sia messo in ginocchio un Paese che ha il terrore della morte rispetto a uno che con la morte ha più dimestichezza. Del resto, nel Medio Oriente il coronavirus non può impattare più di quanto abbia fatto la pace minata ormai da tempo. Qui invece eravamo in una bolla di benessere, un sistema fortemente consumistico, dove molti valori etici erano crollati. Anche le grandi mobilitazioni più recenti sono state sempre mosse dalla paura. Persino quella contro l’inquinamento spesso non è nutrita dall’amore per la natura, ma dalla paura per il proprio futuro. La nostra cultura tende a evitare la morte, ma la morte resta il movente di tante scelte e tanti orientamenti”.
Come Paese, secondo lei, c’è qualche risorsa che possiamo “elaborare” da questa esperienza collettiva di dolore e sacrificio?
“Siamo a un bivio. O apriamo gli occhi e superata l’emergenza nasce un Paese migliore, o seppelliamo definitivamente la nostra umanità. Il rischio c’è, bisogna essere realisti, ma per me la speranza è sempre più forte di qualsiasi ipotesi apocalittica. Questa secondo me è la grande occasione che ci è data di capire che quando c’è un problema, come diceva Don Milani, o se ne viene fuori tutti o neanche qualcuno. Ho sentito dire “il bene comune deve prevalere sul bene dell’individuo”… No, non mi piace: il bene comune è la forma migliore per tutelare ogni individuo. È un modo più nobile di esprimerlo. Dopo anni di individualismo, questo momento ci sta insegnando che l’unico modo di uscire da una crisi è il bene comune. Non lo abbiamo applicato durante la crisi economica, forse possiamo farlo adesso”.
Molti analisti sono concordi nel ritenere che l’impatto economico della pandemia sarà devastante. Perché dovremmo “svegliarci” proprio adesso?
“Perché questa situazione ci sta privando di ciò che ci mantiene umani anche dopo la morte. Perché se la morte è relazione, noi viviamo anche oltre la morte. Questo sembra insegnare la tradizione, l’antropologia stessa, senza entrare nella religione. Marcel Mauss, un grande antropologo del Novecento, diceva che si è umani quando si è donatori. La morte è l’ultimo dono che facciamo agli altri. Come moriamo rimane nella memoria di tutti. La morte ci costringe a donare tutto, volenti o nolenti. La differenza è in chi la accoglie. Ecco, il dono che ci possono fare le persone che stanno morendo ora è di farci capire l’importanza della relazione con chi sta per morire e della relazione con chi è già morto, così da restare veramente umani. Se accettiamo questa scommessa fino in fondo, usciremo da questa crisi con un Paese rinnovato, verso un’idea di bene comune altissima e nobilissima. Io lo spero”.
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