Caro uomo, ti scrivo perché è difficile parlare con te. Non ascolti. Vai diritto per la tua strada, e le mie parole sono solo rumore. Quando ti degni di starmi a sentire, lo fai con condiscendenza, pronto a troncare la comunicazione appena questa si fa più profonda e muove le tue emozioni, appena senti che viene messo in discussione il tuo modo di vedere le cose.
La comunicazione tra noi non è mai alla pari. Trovi sempre il modo di ricordarmi che le leve del potere sono ancora nelle tue mani, che il gioco lo conduci ancora tu, con le tue regole, che io le accetti o meno. Pur di conservare questo tipo di potere sei disposto a tutto, anche a rinunciare al mio amore, alla mia stima, ad assicurare un futuro ai nostri figli su questo pianeta.
Ti scrivo per non doverti sentire ancora una volta mentre mi spieghi cose che non conosci e che non ti sei mai dato la pena di approfondire, ma che presumi di sapere perché per tutto devi avere una risposta che sia in grado di zittirmi. La mia voce è un ronzio che ti disturba, che ti insinua costantemente il dubbio che al di là della narrazione semplice e lineare che tu offri al mondo, esista una complessità che la logica ha difficoltà ad imbrigliare. La complessità ti turba. Sei un essere semplice, che ama la linearità della concatenazione causa-effetto, azione-reazione, perché l’apparente semplicità delle cose ti dà l’illusione di poterle controllare. La complessità appare ai tuoi occhi come una palude stagnante in cui il tuo irriducibile istinto ad agire va scemando a causa di un progressivo offuscamento dell’obiettivo da centrare. Quando incontri la complessità, il tuo istinto ti porta a scomporla in elementi semplici, più facili da tollerare rispetto a quel tutto indiviso che ti sfida a dare una risposta che non sia di testa, ma coinvolga la totalità di te stesso.
Ma la vita è complessa, io
sono complessa, e accetto questa complessità come un dato di fatto che
arricchisce la mia esistenza, anche se introduce in essa elementi di
imponderabilità e caos che fanno sì che molto spesso io non abbia risposte
pronte da offrire ai tanti dilemmi e problemi che la vita mi presenta. Ciò
nonostante, la complessità nutre la mia anima, perché costantemente mi sfida a
trovare quel centro immobile a partire dal quale posso aprirmi in cerchi concentrici
di comprensione.
Tu aggredisci ciò che vuoi conoscere come se fosse un nemico da conquistare e
asservire ai tuoi scopi, io invece lo accolgo e metabolizzo dentro me stessa,
facendolo mio attraverso un processo di assimilazione, che fa sì che nulla mi
sia veramente estraneo. Questo mi permette di tollerare la diversità con molta
più naturalezza di te. A differenza di te, non ho nemici da conquistare per
difendere il mio campo da aggressori che me lo contendono, e quindi, quando non
devo salvaguardare la mia integrità dai tuoi attacchi, preferisco di gran lunga
avere galassie diverse dalla mia da attrarre nel mio mondo, affinché esso ne
sia arricchito. Io sono un cerchio che può trasformarsi in spirale, tu un punto
che diventa una freccia. Io accolgo, tengo unito, comprendo, tu penetri,
separi, aggredisci.
Ti scrivo perché parlare con te è frustrante. Quando ti racconto di come io sento la gioia e il dolore del mondo, tu mi guardi come un problema da risolvere in fretta per poterlo finalmente accantonare. La realtà è che non c’è nessun problema da risolvere, ma una diversa prospettiva da scoprire. Io sono quella parte di te che ama la vita ed è piegata in due dal dolore. Sono colei che porta ogni cosa alla vita e contemporaneamente la consegna alla morte, e questa ambivalenza la porto dentro di me, sempre. Per te invece le cose devono essere bianche o nere, buone o cattive, senza sfumature, senza malinconie. Quando mi vedi triste, sappi che non sono depressa: sto sentendo la fragilità delle cose nel mondo. Quando mi vedi radiosa, sappi che non è accaduto nulla di speciale: mi sto sentendo parte integrante del flusso della vita, l’anello di un’eterna catena dotata di una profonda intelligenza e di un senso che va oltre la mia singola vita. Io sono l’acqua che adattandosi prende la forma di ciò che la contiene, e lentamente trasforma anche la materia più dura; tu sei il fuoco che può scaldarmi il cuore o disseccare la mia anima. Insieme possiamo creare deserti pietrosi o giardini fioriti.
Tu senti le mie parole, ma non le ascolti, perché già pensi cosa potresti fare. Sta di fatto che la maggior parte delle volte non c’è proprio nulla che possiamo fare, basterebbe saper stare: stare nel corpo, stare nei problemi per ciò che sono, stare in ascolto di noi stessi e del mondo, e semplicemente accettare ciò che è. Ma il mio saper stare ti spaventa, risveglia il tuo terrore di sentirti impotente, così riprendi il tuo frenetico fare, e assolvi la tua vigliaccheria tacciandomi di debolezza.
Ma io non sono debole. Se lo fossi, mi sarei già estinta. Che tu mi abbia intimidita, sedotta o abbia spento la mia gioia di vivere, io, nel profondo di me stessa, non ho mai perso il contatto con la mia forza e il mio potere. La mia forza non deriva dalla potenza muscolare e da un iperinvestimento sull’ego, ma dalla capacità di entrare in empatia con la natura e le sue creature, animate e inanimate, umane e non umane; questo mi fa sentire interconnessa con il tutto e fa di me una viaggiatrice tra i mondi, portatrice di una conoscenza ancestrale che mi fa parlare lingue a te sconosciute. La mia è una conoscenza che non si ottiene per un progressivo accumulo di nozioni da assemblare secondo una logica predefinita, ma grazie ad un temporaneo annullamento della convinzione di essere un io separato. Scelgo di entrare in relazione con ciò che voglio conoscere in modo empatico, cercando la sintonia e mettendo in atto una disponibilità totale priva dell’angoscia della perdita di sé. E tu di questa mia conoscenza non ne vuoi sapere, la temi e me la invidi da sempre, e per questo mi hai bruciata sui roghi dell’Inquisizione, mi hai mosso da 5000 anni una guerra non dichiarata in cui le tue armi sono state l’arroganza, la mancanza di ascolto e di considerazione, la svalutazione, la denigrazione, lo svilimento, l’asservimento, fino ad arrivare agli abusi, lo stupro, le mutilazioni, l’assassinio.
Quando Eva offrì ad Adamo il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, il dio creato dagli uomini la punì; altro non poteva fare, poiché gli uomini avrebbero potuto condividere quella conoscenza con le donne solo sviluppando doti tipicamente femminili quali la sensibilità e l’empatia, e questo per te era ed è inaccettabile. Questo è il peccato originale di Eva: l’essere naturalmente portatrice nel corpo di una conoscenza che non si acquisisce tramite l’apprendimento di nozioni, ma in modo viscerale, e a cui gli uomini possono attingere solamente tramite una sostanziale trasformazione di sé, che si attua soprattutto abbandonando la pretesa del controllo sull’irrazionale.
Quante volte mi sento accusare di essere lunatica, irrazionale, uterina, solo perché descrivo la realtà nel modo particolare in cui io la sento, discostandomi dal pensiero unico maschile.
Io sento, sì io sento, e il
mio sentire è la mia forza e mi rende libera, a prescindere da qualunque
strategia tu metta in atto per sottomettermi e tacitarmi.
Io sento, e so che di ciò che sento mi posso fidare perché nasce da una parte
profonda di me, che parla con la voce di un lago tranquillo e incontaminato, a
contatto del quale anche la personalità di superficie, soggetta alle
fluttuazioni del divenire, tace e impara.
Io sento, e per sentire non separo da me l’oggetto della mia conoscenza, ritenendolo altro da me, ma creo uno spazio neutrale in cui l’attrito della visione dualistica si stempera nella condivisione, riconciliandomi così con l’apparente alterità del mondo. Questo mi consente di sentirmi insieme al mondo, mai sola, mai isolata, ma profondamente integrata in quella rete di relazioni e di energie che chiamiamo VITA.
Quando ti parlo, le mie parole partecipano di questa comunione col creato, sono mie e non mie, rispecchiano il modo in cui vibro all’unisono con i palpiti degli alberi, dei fiumi, dei monti, della luna, del sole e dei pianeti. Il mio sentire dà voce a ciò che non si esprime con le parole, eppure è lì, vivo, e desidera comunicare con te. Sono naturalmente preposta a farmi canale, affinché attraverso di me si attualizzi la vita su questo pianeta, e questo canale non si attiva solo per generare nuova vita, ma anche per prestare voce a ciò che ancora non è o ormai non è più, a ciò che non possiede un linguaggio a te comprensibile con cui esprimersi.
Io ascolto, so farmi vuoto per ascoltare, e ciò che ascolto te lo comunico affinché tu possa trovare pace e consolazione, affinché tu possa fermarti a riflettere sull’invincibile avversione che provi per la tua fragile umanità. Ma le mie parole cadono nel vuoto dell’indifferenza e dell’incomprensione. Parlo una lingua aliena, che nella migliore delle ipotesi ti sconcerta, se non ti infastidisce, e che alla resa dei conti ci separa ancor di più. Ho cercato invano di renderti accessibile il mio mondo interiore, e questa incomunicabilità che c’è tra noi fa sì che la finalità più alta della mia presenza su questo pianeta resti tristemente disattesa.
La mia capacità di ascolto
crea condivisione, collaborazione, pace. La tua sordità nei confronti della
mostruosa quantità di dolore che generi nel mondo alimenta solo ostilità,
egoismo, sfruttamento, povertà e morte.
Non so più come fare per farti giungere la mia voce. Non c’è più molto tempo.
Il vento sta cambiando, come un fruscio che giunge da lontano.
8 marzo 2018
Alessandra Lanzoni
Due anni fa ho iniziato da autodidatta un percorso di ricerca sul femminile. Avevo colto già da tempo segnali che mi dicevano che siamo alle soglie di una fase di netta risalita dell’energia femminile, e ad un certo punto mi sono trovata a ad interrogarmi su quali fossero i veri valori che ci contraddistinguono in quanto donne.
È stato un po’ come chiedersi: chi sono io a partire dal mio essere donna? Qual è la mia natura fondamentale, al di là dei condizionamenti e dei pregiudizi della cultura dominante? Pensavo di saperlo, e invece ho scoperto che del femminile sapevo pochissimo, e che quello che sapevo mi serviva a ben poco. Ho scoperto che esiste una vasta letteratura sull’argomento, assai poco pubblicizzata e valorizzata, e per questo pressoché invisibile, a meno che non la si vada espressamente a cercare. Il mio punto di partenza è stato lo studio sull’archetipo della Grande Madre di Neumann1, dopodiché mi si è aperto un mondo di donne, che mi ha preso per mano, accompagnandomi in un modo squisitamente femminile alla scoperta di una diversa narrazione della storia, della psicologia, della mitologia, della teologia, della sociologia, di cui si parla in sordina, perché priva dell’imprimatur da parte della cultura patriarcale dominante.
Ho preso coscienza del fatto che in questi ultimi 5.000 anni di patriarcato la natura femminile è stata svalutata, pervertita e soggiogata al punto tale che oggi è assai difficile per qualunque donna che viva su questo pianeta avere una piena consapevolezza della propria essenza e dei propri punti di forza. Più della metà della popolazione mondiale consuma gran parte della propria energia nel tentativo di lottare contro il senso di inferiorità ormai interiorizzato dopo millenni di dominazione maschile, e blocca la vera realizzazione di sé nel tentativo di adattarsi ai canoni di una società che la vede unicamente nel ruolo di strumento per la riproduzione della specie, oggetto sessuale e bassa manovalanza gratuita addetta alla cura dei più deboli.
Mi sono resa conto che la tanto sbandierata parità è solo uno specchietto per le allodole, che non tiene conto della nostra differenza, non tende a valorizzare e rispettare le nostre peculiarità, ma ci costringe a sposare gli stessi valori, gli stessi ritmi e le stesse dinamiche relazionali degli uomini, intrappolandoci in una spirale di stress, superlavoro, competizione, isolamento dalle altre donne, che ci sta rendendo la vita un inferno, e in cui non potremo mai veramente competere con gli uomini, non perché non ne saremmo all’altezza, ma perché questo non è il nostro campo, non risponde al modo femminile di concepire l’esistenza, e quindi serve solo a snaturarci ancor di più e a renderci stressate, insoddisfatte, infelici e costantemente a rischio di ritorsioni e ricatti.
Ho dovuto prendere atto che su questo pianeta non esiste un posto in cui noi donne possiamo sentirci davvero sicure e a casa; non esiste territorio fisico, psichico e sociale in cui vengano davvero riconosciuti e rispettati i nostri bisogni, i nostri progetti di vita e la nostra identità. In sostanza, viviamo in un mondo in cui non ci viene riconosciuta la libertà di essere autenticamente noi stesse e di far sì che ciò che siamo abbia un impatto reale su un mondo che è anche nostro solo a parole, mentre nei fatti riflette in tutto e per tutto le aspirazioni e le ossessioni, i desideri e le aberrazioni del genere maschile. Anche se una piccola parte di noi gode oggi di una sorta di libertà condizionata, ciò ci è concesso a fronte della nostra disponibilità ad aderire ad un sistema di valori androcentrico, in cui finiamo inevitabilmente per non riconoscerci, sentendoci nel profondo di noi stesse delle estranee tollerate in virtù dei servigi che possiamo offrire. Le poche donne che riescono ad occupare posizioni di potere, in genere sono costrette a corazzarsi e a fare scelte di vita sofferte per uniformarsi agli standard di aggressività e competitività maschili, pena l’esclusione dall’agone politico o professionale, perché per gli uomini ogni attività umana deve essere una metafora bellica, in cui esistono solo vincitori e vinti, senza possibilità di negoziato. E le nostre denunce riguardo a tale distorsione operata dal genere maschile nell’ambito delle relazioni umane vengono usate capziosamente contro di noi a riprova della nostra debolezza e inferiorità, perché in questa nostra società i valori maschili rappresentano il modello di eccellenza rispetto al quale qualsiasi alternativa risulta carente.
Il semplice fatto di descrivere la realtà dal nostro peculiare punto di vista ci delegittima automaticamente dall’avere voce sulle questioni del mondo. Le parole delle donne non vengono ascoltate, non hanno peso, non contano quando si tratta di decidere come la vita su questo pianeta debba essere gestita. Ciò significa che i più deboli, in primis donne e bambini, sono costantemente a rischio di subire le intemperanze di un mondo di maschi adulti afflitti da un endemico complesso di impotenza, che li spinge senza sosta a competere per il potere, in una pericolosissima escalation di violenza, dimostrazioni fisiche o simboliche di forza, manipolazione dei fatti e delle emozioni, ossessione maniacale per il controllo a tutti i livelli.
Ovviamente non ogni singolo uomo risponde a queste caratteristiche, ma il genere maschile nel suo complesso ci offre la chiara immagine di una forza fuori controllo, sempre più scollegata dal pianeta che la ospita, dalla natura e dalla propria componente femminile: un uomo ormai avviato verso un futuro in cui il rifiuto nei confronti del fatto di essere nato da donna, e quindi di essere natura, lo porta addirittura a sognare di nascere da un utero artificiale o di robotizzarsi per vivere un’eterna vita artificiale e virtuale, poiché non si riconosce più come veicolo di un’anima immersa nell’anima del mondo.
Li abbiamo amati noi donne questi uomini, e li amiamo ancora, ma è inutile parlare di amore a chi non lo riconosce come un valore fondante della propria vita. E allora una delle poche vie percorribili che ci rimangono sta nel lavorare su noi stesse, smontando passo dopo passo tutte le false convinzioni circa la nostra natura inculcateci da migliaia di anni, per riscoprire chi siamo veramente, cosa vogliamo veramente e di quali frecce disponiamo per centrare i nostri obiettivi.
Facendo ciò, recupereremo un maggior potere su noi stesse e sulla nostra vita nonché un maggiore benessere, perché va detto chiaramente che vivere in un mondo che non ci riconosce e in cui non ci riconosciamo ha anche delle pesanti ripercussioni a livello psicofisico. Le statistiche indicano che le donne soffrono in percentuale maggiore rispetto agli uomini di depressione, ansia, disturbi del comportamento alimentare e del sonno, attacchi di panico, disturbi psicosomatici, fibromialgia, cefalea cronica, sindrome del colon irritabile, sensibilità chimica multipla, sindrome da stanchezza cronica. Gli uomini amano ricondurre tutte queste patologie alla nostra emotività e fragilità o alla nostra fisiologia, quando in realtà sono sintomi riconducibili quasi sempre a situazioni che parlano di un forte disagio esistenziale.
A questo punto è lecito chiedersi, come se lo chiede la psicoanalista Marina Valcarenghi2: Se il nostro attuale modo di essere rispondesse effettivamente a canoni naturali, perché genera sofferenza e produce sintomi di cui gli uomini non soffrono o di cui soffrono in misura nettamente minore? Perché lasciamo che il nostro modo di essere venga plasmato dalla mentalità maschile senza ribellarci? Se “l’aggressività è quella parte dell’istinto che spinge ad appagare il desiderio di affermazione di sé nel mondo”3, perché gli uomini hanno un rapporto molto più naturale con la loro aggressività, mentre noi soffriamo di un’endemica sindrome da perdita del territorio? Mi sembra difficile ipotizzare che le donne non siano in grado di riconoscere e proteggere la propria identità e il proprio progetto di vita a causa di una debolezza congenita; mi è più facile pensare che “se l’istinto aggressivo è una pulsione cogente, automatica e universale nella nostra specie, ciò probabilmente non significa che noi donne ne siamo prive, ma che ne siamo state private. Un istinto, però, non è eliminabile, può tutt’al più essere represso e quindi respinto nell’inconscio, dal quale invierà segnali di disagio”4.
Ritengo quindi più probabile che ad un certo punto della nostra storia, e specificamente verso la fine del Neolitico, gli uomini abbiano cominciato a proiettare sulla donna, in quanto metafora vivente dell’opera generatrice e dissolutrice della natura, il loro complesso di impotenza e di inferiorità nei confronti del potere della natura e dell’ineluttabilità dei cicli naturali. Noi donne abbiamo finito poi per interiorizzare tale complesso a suon di dogmi religiosi, leggi e pratiche discriminatorie, presunte evidenze “scientifiche” e ogni sorta di violenza e abuso, finendo così per riflettere, come uno specchio, tutte quelle componenti della psiche maschile che sono state da loro rifiutate perché inconciliabili con la visione che volevano e ancor oggi vogliono avere di se stessi come sesso forte, capace di controllare i processi naturali, con il sogno di riuscire un giorno a sostituirsi ad essi. Questa sorta di filtro deformante che l’uomo ha forzatamente sovraimposto come un velo alla nostra natura, ci sta rendendo assai difficile la riscoperta della nostra vera essenza e il sentirci a nostro agio nella nostra pelle. Abbiamo finito per rispecchiare l’immagine che gli uomini hanno della loro donna interiore, o della loro Anima in termini junghiani. Di conseguenza, la raffigurazione del femminile che storicamente ci viene tramandata è una continua oscillazione tra l’idealizzazione della donna angelicata, asessuata e disincarnata, e la svalutazione della donna-natura, un essere inferiore tutto materia, privo di razionalità e preda degli istinti. È dunque importante prendere atto che, finché permetteremo agli uomini di definirci attraverso le loro proiezioni inconsce invece che tramite una relazione autenticamente paritaria che riconosce la nostra identità e la nostra differenza, continueremo a rimanere un mistero, oltre che per gli uomini, anche per noi stesse.
La strada che ci può portare a ritrovare il nostro vero volto è dunque un percorso tortuoso, che prima di condurci all’accettazione di ciò che è e di ciò che è stato per poi aprirci all’impegno personale, passa per il dolore, la frustrazione, la rabbia, i tentativi di rimozione. Questi ultimi due anni sono stati per me un tempo difficile, ma straordinariamente stimolante. Sentivo che stavo facendo qualcosa di utile non solo per me, ma anche per le altre donne con cui entravo in contatto, con cui ho scambiato idee, spunti di riflessione, libri e, naturalmente, emozioni. Le mie ricerche sono state accompagnate sia dalle notizie degli ormai quotidiani femminicidi sia dai tanti segnali di una crescente consapevolezza e forza da parte delle donne. Mi sono sentita nel flusso dello spirito del tempo e ho percepito chiaramente che il vento sta cambiando.
Sono convinta che il cambiamento, se ci sarà, verrà da noi donne, dalla nostra compassione e dalla nostra fermezza. Ognuna di noi dovrà scegliere nel profondo di se stessa se essere parte della soluzione o restare parte del problema.
Ultimamente sto cercando di sintetizzare le idee e le riflessioni scaturite dalle letture di questi ultimi anni in una sorta di epistolario indirizzato agli uomini. L’8 marzo, vorrei condividere con voi la prima di queste lettere, che parla delle difficoltà di comunicazione tra uomini e donne.
Alessandra Lanzoni
Quando si parla di Amore è necessario ampliare lo sguardo interiore, poi la coscienza per dare così respiro al cuore. Già, se si vuole parlare di Amore è necessario sentire e seguire il cammino del cuore. Stiamo seguendo questo cammino?
Viviamo in un mondo, che chiamiamo con orgoglio moderno, prendendo così le
distanze da quello che chiamiamo primitivo e che ha perduto, nel percorrere
questa distanza, il senso del sacro, del mistero e della dignità, ha perso
anche il senso della bellezza e della considerazione cadendo così
nell’indifferenza, la più grave di tutte le malattie.
Riusciamo a vederlo condotti soltanto da un pensiero calcolatore che lo riduce
ad essere senza spessore, arido, superficiale, privo di significato e di
profondità. Pensiamo sempre con la testa e non con il cuore, condotti
dall’ego e da tendenze razionali e intellettuali che obbligano il cuore a
ritirarsi rinchiudendosi in un impenetrabile silenzio oppure ad andarsene
lontano. Non ci stiamo rendendo conto che stiamo adottando una curiosa
modalità di protezione mettendo in atto così, nei confronti del cuore, il più
grande dei tradimenti. Questo grande tradimento ci porta a non sapere più
amare e fa nascere dentro noi una grande paura di amare che dà vita sempre di
più a sintomi di vario genere che nascondono una profonda, rischiosa e mortale
patologia spirituale, sociale ed ecologica.
Non vogliamo sentire che aldilà della materia c’è altro, c’è l’anima del mondo,
di un mondo che è tutto animato, perché tutto in questo universo ha un’anima e
noi questa anima non la percepiamo più e la uccidiamo lentamente e
inesorabilmente. Viviamo una frattura tra il nostro essere al mondo e
l’universo stesso, una perdita di connessione tra interno ed esterno che fa
crescere la paura dell’intimità e di fiducia nelle relazioni. La paura è
diventata davvero un demone che nega l’amore, quell’amore che ci ha dato la
vita, quell’amore che sostiene l’universo intero che è una forza invisibile ma
la più potente che esista, opera e gestisce tutte le altre forze, è la
quintessenza della vita, può tutto e trascende tutto. L’amore il più
grande e misterioso miracolo! Allora è l’amore l’unica e ultima risposta
alla vita, una risposta che parla di gratitudine, di gioia, di riconoscenza;
sentimenti che possono nascere solo diventando migliori mettendo così le basi
per l’evoluzione dell’umanità verso un piano superiore. Migliorare se stessi è
il cammino del cuore.
“Amor che move il mondo e
l’altre stelle”.
Give a Reply